Risorgimenti, Ricostruzioni, Rinascite. Come può sorgere o rinnovarsi una nazione -
VII Edizione di FestivalStoria
13-16 Ottobre 2011
Torino, Saluzzo, Savigliano
Per scaricare il programma completo e per ulteriori informazioni potete visitare il link: http://www.festivalstoria.it/festival/
Sarà anche vero che la Storia è maestra, ma gli uomini continuano a mostrarsi cattivi, anzi pessimi allievi.
Il riferimento, sia pur non testuale, a un celebre passaggio di Antonio Gramsci, a cui già altre volte, e non solo in questa sede, abbiamo fatto ricorso, suona ogni anno vero, ma anche, inevitabilmente, più aspro e sconsolato, specie se ci concentriamo sulla nostra Italia, dove, peraltro, assume toni ora farseschi (e qui ci soccorre il celeberrimo aforisma marxiano, sulla storia che si ripete, passando però dalla tragedia alla farsa), ora, invece, semplicemente, beceri e triviali. E, comunque, sconsolatamente, ci viene da scuotere il capo, riflettendo sul contrasto fra i plurimi insegnamenti della storia, regolarmente ignorati e, d’altro canto, l’arrogante coazione a ripetere, da parte della classe politica, i medesimi errori, i quali, oltre un certo punto, divengono colpe, irredimibili colpe.
Per cominciare, onde sgombrare il campo dalla materia più deprimente, la nostra Italia, che nell’anno del suo Centocinquantenario appare ogni giorno viepiù adirata sul piano sociale, balbettante o addirittura inerte nella politica economica, succube su quelle di politica internazionale e, ben oltre il declino per quanto concerne l’etica pubblica. Il catalogo dei mali presenti d’Italia è presto fatto; è un catalogo di errori e orrori, di disfacimento delle sue istituzioni, di attacco agli stessi princìpi costituzionali (a cominciare dal tentativo di messa in mora del Terzo Potere, quello Giudizario; e di controllo dell’informazione), di obbedienza passiva alle “leggi del Mercato”, di Grandi Inutili Opere Costose, di privatizzazione sconsiderata di beni, strutture e persino istituzioni; e di aziendalizzazione forzata e accelerata delle strutture addette alla formazione delle giovani generazioni… Si può dire, insomma, che nessun comparto della vita di questa che volle essere l’ultima delle grandi potenze (non riuscendo ad essere quel che più ragionevolmente avrebbe potuto essere, ossia la prima delle piccole), sia rimasto indenne della furia devastatrice dei nuovi Hyksos, che hanno percorso la Penisola, distruggendone il paesaggio, spegnendone la forza vivificatrice dell’economia o mortificando le stesse autonomie locali, magari in nome di uno sbandierato “federalismo”, “solo chiacchiere e distintivo” (per citare una celebre battuta proferita da un grandioso Robert De Niro, nei panni di Al Capone, nel film Gli intoccabili, di Brian De Palma), di un Paese, come il nostro, fondata su un policentrismo risalente alla felice Età dei Comuni (ne parleremo nel Festival, sia pure in absentia di François Menant, che vi ha dedicato un ottimo libro, che discuteremo, in un incontro specificamente dedicato alle Scuole, previsto a Saluzzo domattina).
Discuteremo, di questo come di tutti gli altri temi proposti in questa VII Edizione del nostro Festival, e nelle sei precedenti, all’insegna della serietà della ricerca storica, coniugata con il massimo della capacità di comunicarne i risultati a un pubblico, più o meno vasto (la quantità non è mai stato il nostro obiettivo, né il nostro risultato primo, ammettiamolo), ma comunque di appassionati, più che di specialisti. Discuteremo, rifiutando sempre, tuttavia, l’intollerabile pretesa di ridurre la storia – disciplina il cui compito è prima di ogni altro e rimane, la conoscenza dei fatti del passato – a doxa, sempre contrapponendole la necessità di confermare la Musa Clio sul terreno dell’epistème: “scienza” contro “opinione”, insomma, quale che sia l’argomento; rigore contro improvvisazione; serietà contro pressapochismo. Ma, sempre, volontà di intrattenere nobilmente, e di procurare un divertimento alto, per richiamare uno dei nostri numi tutelari, con Gramsci: Marc Bloch. Eppure v’è poco da divertirsi, attraversando quel campo di rovine, secondo l’immagine celebre di Walter Benjamin, che è la storia. E in questa Edizione del nostro Festival, le rovine sono assai presenti, in quanto il concetto di “ricostruzione” non può prescindere dalle macerie di un passato da superare, sul quale edificare un futuro. Si ricostruisce dopo che qualcuno, qualcosa, ha distrutto. Ma, aggiungo, si risorge, dopo che si è caduti. E si rinasce dopo la morte. Ecco la spiegazione del titolo di questa Edizione. Che implica, ancora gramscianamente (ma altresì il richiamo va a Romain Rolland), il pessimismo dell’intelligenza, la quale non può non vedere le cadute, le macerie, e i decessi; ma anche l’ottimismo della volontà o (alla Burckhardt) dell’entusiasmo, che prova a sollecitare i fuochi sotto la cenere, a rianimare i corpi sociali infiacchiti, o spenti.
Insomma, in realtà il “risorgimento” di cui intendiamo occuparci non è solo né tanto una vicenda storica data, ma anche e soprattutto un concetto della vita. E proveremo, come sempre, a esemplificarlo guardando a situazioni diverse nel tempo e nello spazio. E ci occuperemo anche dei processi di costruzione di Stati, ex novo, i quali implicano violenza, dunque, di nuovo, distruzioni, eccidi, e quelle cataste di cadaveri su cui posano sempre le nazioni, anche quando i loro ideologi si industriano a cercare pezze d’appoggio in più o meno plausibili frammenti di passato, che giustifichi le nuove bandiere, i nuovi inni, i nuovi eroi nazionali, le nuove capitali e tutta la variegata simbologia – parole, suoni, immagini, monumenti, riti, feste… – che accompagna il sorgere o il ri-sorgere di una nazione. Col trascorrere del tempo, poi, si tendono a dimenticare le vittime, a sopire il dolore, o a mettere da parte il senso di colpa collettivo; e rimane l’epopea. Per il nostro Risorgimento, proprio nell’anno celebrativo della raggiunta Unità, in vero l’epopea è stata fatta segno di attacchi, tanto ingiustificati sul piano storiografico, quanto strumentali sul piano ideologico; attacchi, sovente grotteschi, anche per l’ignoranza storica di chi li ha mossi, quando si è tracimato sul piano direttamente politico, della politica quotidiana, che mira a lucrare in termini immediati, arrivando a negare il valore fondativo dell’Unità nazionale, movendo accuse antistoriche al Sud “palla al piede”, o inventando piccole patrie inesistenti dal punto di vista linguistico, etnico, culturale. E ai giovanotti (o ex giovanotti) che minacciano la secessione coi fucili della Val Brembana, e intanto, comodamente assisi sui banchi parlamentari della “Roma ladrona”, si beano di ingiuriare Garibaldi (nelle loro feste divenuto “il Porco dei due mondi”), colpevole di aver “appioppato” il Sud al Nord, a tutti costoro ci permettiamo di consigliare di recarsi di corsa a Napoli a visitare la bellissima mostra Da Sud. Le radici meridionali dell’Unità nazionale (curata dal nostro Luigi Mascilli Migliorini, che terrà tra poco la lectio magistralis inaugurale). E là, davanti alle icone – che oso chiamare sacre – di Francesco Mario Pagano, Domenico Cirillo, Eleonora Pimentel Fonseca, Carlo Poerio, Antonio Toscano, vorremo dire loro, come s’usava un tempo: “Giù il cappello!”, magari aggiungendo qualche colorito epiteto.
E giacché ci siamo, ricordo a chi non lo sa che Antonio Toscano, prete rivoluzionario, organizzò addirittura una Legione militare calabra, per combattere l’odioso regime dei Borboni: assediato dalle truppe sanfediste al comando del cardinale Ruffo, che volevano “liberare” Napoli dai rivoluzionari del ‘99, Toscano, come Pietro Micca, fece saltare in aria se stesso e i suoi, con gli aggressori: Alexandre Dumas ne raccontò le gesta, facendosi storico grazie a un testimone sopravvissuto, che fu la sua fonte documentaria. E davanti a un personaggio di tale statura, davanti a un giureconsulto finissimo, pensatore politico, filosofo come Francesco Mario Pagano, che, in nome della rivoluzione nazionale repubblicana, finì, con i suoi sodali, sul patibolo; o davanti a un musicista quale Domenico Cimarosa, a cui i sanfedisti distrussero le carte musicali (la reazione si vendica così: chi non ricorda le mani troncate del musicista Victor Jara, dagli sgherri di Pinochet nel 1973 in Cile?), davanti a siffatti personaggi, giganteschi, gli odierni “contestatori” del Risorgimento e dell’Unità appaiono in tutta la loro piccolezza. Ma i loro argomenti, benché risibili, rischiano di creare senso comune, approfittando dell’ignoranza generale o della facile tendenza all’oblio. Perciò l’importanza della Storia, che è il vero cemento di una comunità.
L’epopea del 1799, quella del 1848, gloriose e tragiche, dove le forche ebbero l’imprimatur della Chiesa di Roma, precedono e preparano gli eventi che condussero, attraverso la miracolosa spedizione garibaldina, alla proclamazione dell’Italia unita; “si mieté, in quel decennio, la messe preparata da un secolo di fatiche”, sintetizzò Benedetto Croce. Non fu la Repubblica democratica sognata da Mazzini e Garibaldi, o quella socialista preconizzata da Pisacane, ma fu l’Italia una e libera da soggezioni straniere. Un’Italia che, fuor di retorica, fu costruita col pensiero dei filosofi e dei giuristi, l’opera degli storici, le creazioni di artisti, letterati, musicisti; e fu cementata col sangue di patrioti, che non esitarono a sacrificarsi per quello che pareva loro un ideale maggiore, la Patria una e unita. L’Italia di Cavour, il genio politico, il vincitore, tuttavia recava in sé anche qualcosa dell’Italia di Garibaldi, il genio militare, lo sconfitto (e il confronto fra i due attori del moto unitario sarà affrontato in un apposito evento di questa Edizione, previsto sabato 15 a Savigliano, dove è anche allestita una mostra su Cavour e il suo tempo).
Grande moto progressivo, in definitiva, il Risorgimento, che si colloca in un contesto europeo (e ne parleremo in questa stessa sede domani, mentre dedicheremo, forse per una nostra debolezza di studiosi formatisi sui classici greci e latini, un incontro specifico – a Savigliano, domenica – al Risorgimento greco, quella Grecia dei poeti che fece vibrare il cuore di tanti artisti e letterati nei primi decenni del XIX secolo. Aggiungo che, sempre in omaggio al nostro modo di fare public history, a Saluzzo sabato si terrà anche un reading-concerto su scritti e musiche risorgimentali, quelle più note, mentre stasera, al Caffè Neruda un cantautore attento ai movimenti sociali traccerà con le sue canzoni la linea di una storia dal basso.
Quel nostro Risorgimento, dunque, fu cosa importante, benché “rivoluzione passiva” (è ancora Gramsci, che riprende il concetto di un altro grande partenopeo, Vincenzo Cuoco), e incapace di mobilitare le masse, rendendole protagoniste, pur nelle diatribe vivaci, spesso trasformate in forte contrasto, tra moderati e democratici, monarchici e repubblicani, cattolici (ma anche protestanti) e laici (e anche di questo parleremo nei prossimi giorni), malgrado tutto ciò, quel moto ha rappresentato il momento fondativo dell’Italia con le sue pecche, i suoi limiti, certo, ma anche con gli eroismi generosi di quanti, magari suggestionati da Dante e Machiavelli, da Petrarca e Foscolo, immolarono la loro giovinezza. Questa Italia, come quella del “Nuovo Risorgimento”, la Resistenza (a cui non abbiamo, forse colpevolmente, dedicato un apposito incontro), è quella che ci sta a cuore, e non è un caso che nell’età risorgimentale, o immediatamente successiva, si studiò con particolare cura, e vorrei dire accanimento, il Rinascimento: erano due momenti di rinascenza (e anche qui abbiamo un approfondimento specifico, particolarmente originale), che seguivano a fasi di prostrazione della nazione.
Ricostruire dalle macerie, risorgere dalla malattia, rinascere dalla morte del corpo politico: “come può sorgere o rinnovarsi una nazione”. Così recita il sottotitolo dell’edizione, che reca in fondo un augurio sotteso all’Italia, in questa sua fase storica che non esito a definire precatastrofica. Ma la catastrofe può e deve (così insegna la tragedia classica greca), essere l’inizio della rinascita, sia pure a duro prezzo. Un augurio sarebbe necessario anche per la nostra Europa, che, sempre più pare dimostrarsi una unione di banchieri e non di popoli; qui, doverosamente, considerata la sede, ma anche per il suo significato paradigmatico, affronteremo, oggi stesso, con un diplomatico, Jürgen Bubendey, e uno storico, Gian Mario Bravo, il tema del rapidissimo (all’epoca si disse troppo rapido, esempio di artificialismo politico estremo) passaggio dalle due Germanie alla Repubblica Federale unita. Si è trattato di un buon affare per tutti? Sono stati più i vantaggi che gli svantaggi, si direbbe, a giudicare dalla orgogliosa tenuta della nuova Germania nella crisi del Continente, e dalla sua rigogliosa ripresa economica. Ma è tutt’oro quel che riluce? Domani, sempre qui, con un altro studioso tedesco, Karl Schloegel, forse potremo anche cogliere il risvolto della medaglia. Ma guarderemo più largamente al Vecchio Continente, ai suoi incessanti sforzi di costruzione e decostruzione, passati attraverso guerre mondiali e guerre locali, che in certi suoi angoli continuano anche mentre noi siamo qui a parlarne.
E, tornando all’Europa, non sarà che sacri egoismi stanno avendo la meglio sui generosi disegni unitari dei padri fondatori (e persino dei lontanissimi progenitori, come quel Carlo Magno, di cui parleremo a Savigliano domenica, con Giuseppe Sergi e Germana Gandino)?
Le nazioni, dunque, nei loro processi di creazione o ricreazione, di invenzione o di distruzione cui seguono altri atti, “ristrutturativi”, con regioni che si autonomizzano, o addirittura pretendono l’indipendenza, o la reclamano con le armi, ricorrendo a geografia, archeologia, letteratura e storia (ma spesso si tratta di pseudostoria a dire il vero) per auto legittimarsi ed essere legittimate sul piano internazionale. Faremo l’esempio (a Savigliano, sabato) a noi vicino e caro della Catalogna con uno studioso tra i maggiori sulla scena, José Enrique Ruiz-Domènec, conoscitore espertissimo della questione: ma l’autonomia catalana può essere invocata a pretesto per una autonomia o addirittura indipendenza padana? Qui siamo davanti a veri e propri imbrogli, e ancora una volta solo la storia ci può aiutare a sceverare, a distinguere, e a comparare. E, a capire. Se poi vogliamo impararne le lezioni è affar nostro. Appunto, si ritorna alla Storia maestra da cui siamo partiti. Separazione, secessione, sgretolamenti: gli Stati Uniti dell’Ottocento (a Savigliano, domenica, con Tonello, Fasce e Vaudagna) e l’Unione Sovietica di fine Novecento (domattina, qui, con Agosti, Buttino e Pons; ma anche a Savigliano e Saluzzo con uno specialista di letteratura, Roberto Valle, che mostrerà le persistenze culturali del mondo sovietico, “dopo la caduta”), offrono esempi diversi ma entrambi di grande interesse sul piano storico, e di impatto su quello politico, di queste pratiche, mai indolori. Una secessione finita male, con una guerra tra le più sanguinose che la storia ricordi; e la fine di un Impero multietnico, che ha dato vita a stati e staterelli di malcerta fisionomia, e incapaci di reggersi solo sulle proprie forze, in un processo mai finito, che di tanto in tanto provoca efferate recrudescenze. Le inquietanti lezioni della Storia… O guardando all’Africa, come faremo con Giampaolo Calchi Novati, forse il nostro maggiore africanista (a Savigliano domattina e a Torino domani pomeriggio, a Scienze Politiche), potremo riflettere sull’onda lunga, lunghissima, del processo di decolonizzazione, assumendoci, noi italiani, in specie, le nostre responsabilità, noi italiani che a distanza esatta di un secolo dalla prima “impresa libica”, quella che fu chiamata la “guerra lirica”, ci siamo gettati in un’altra guerra (per noi la terza, dopo la “riconquista” degli anni Trenta, a suon di massacri), in nome, beninteso, del diritto umanitario. Anche allora la propaganda affermò che gli arabi ci aspettavano a braccia aperte, e che l’Italia riportava là la civiltà romana; oggi non saprei dire di quale civiltà siamo portatori, considerando il discredito generale, da un capo all’altro del Pianeta, di cui godiamo.
Affrontando il tema della costruzione degli Stati, non potevamo tacere di Israele, esempio di edificazione di uno Stato moderno, con tanto di invenzione di un popolo, stando a Shlomo Sand, uno studioso israeliano, autore di un recente libro innovativo e fascinoso sul tema, col quale dialogheremo domani (sempre a Torino, ma nella sede della Facoltà di Scienze Politiche).
Insomma, come sempre tanti e variegati sono gli esempi che il Festival trae dai Grandi Magazzini della Storia, e cercheremo di proporli all’attenzione del nostro pubblico, in modo serio ma per quanto possibile “lieve”, perché, comunque, più di tanto non si può semplificare, se non si vuole correre il rischio , denunciato a suo tempo da Gramsci, colpito da critiche per il livello troppo alto dei suoi articoli, di “sguaiataggine”. Sono tante le “storie” che il nostro Festival racconterà, cercando di eccitare, secondo quella che è la nostra divisa, la “volontà di sapere”. Ce la faremo? Certo, sono tempi durissimi per la cultura, che, come ha sentenziato un autorevole ministro, “non si mangia”. Ma noi ostinatamente, pervicacemente, continuiamo. Anche se ogni anno siamo più provati, e ancora un mese fa siamo stati tentati di rinunciare, davanti al taglio del nostro bilancio, ridotto alla metà dello scorso anno. Per questa VII Edizione i miei collaboratori – nell’ordine Francesca Chiarotto, Lorena Barale, Giacomo Tarascio – hanno accettato di lavorare gratis, come del resto, fa sempre chi vi parla. E il ringraziamento che avrei dovuto fare loro diventa un impegno morale a cercare comunque risorse ulteriori per offrire almeno un modesto compenso, pur sapendo che per tutti loro come per Elena Castelli (storica colonna di FestivalStoria) e Roberta Canevari (l’attivissima e direi temutissima… nostra responsabile dell’Ufficio Stampa), della efficientissima Società Stilema di Anna Gilardi, il compenso primo è precisamente nella soddisfazione di aver condotto in porto l’edizione e di vedere relatori e pubblico contenti.
I ringraziamenti ai miei collaboratori, a cui si aggiungono quelli ai membri del Comitato scientifico che hanno accettato di intervenire personalmente, talora offrendo suggerimenti su specifici temi (Agosti, Bravo, Calchi Novati, Mascilli Migliorini, Pécout, Sergi, Vaudagna…, con una menzione speciale per Luciano Canfora, che riceverà domenica mattina a Saluzzo il nostro ambito Premio e ci delizierà con una inedita lezione su Gramsci e il fascismo), dicevo, i miei ringraziamenti a giovani che lavorano con smisurata passione e generoso impegno, senza alcuna contropartita che non sia la gioia del lavoro ben fatto, e quella del piacere di una full immersion storiografica, con tutti i suoi risvolti civili e umani, in realtà pongono il dito sulla piaga della precarietà lavorativa che, specie nel lavoro culturale, dall’Università all’editoria, sta diventando una insopportabile forma non solo di dilapidazione di un patrimonio intellettuale, ma una pesantissima ipoteca sul futuro di una generazione, la generazione jobless, alla quale nessuno potrà mai ripagare gli anni di attesa, la frustrazione di lavori impegnativi e malpagati o non pagati, la delusione di contratti annunciati e non arrivati, la vera e propria disperazione davanti a un avvenire che se apre le sue porte mostra un buio senza speranze. A loro dovremmo dedicare i versi pasoliniani: “O generazione sfortunata…”, anche se non si tratta di sfortuna, essendo una situazione che ha i suoi responsabili, che un giorno, si spera, saranno trascinati davanti ai tribunali della Storia.
Eppure, senza aspettare un domani imprecisato, già oggi, qualcosa accade… “Eppur si muove”, potrei dire col nostro buon Galileo. Oggi, in tante piazze non solo d’Italia, ma dal Maghreb alla Grecia, dall’Egitto alla Siria, da New York a Barcellona, da Londra dall’Africa “nera”, L’indignazione monta con la crisi. E i popoli stanno rinascendo a nuova vita, esprimendo l’imperiosa esigenza di una democrazia autentica, dal basso, partecipata: anche con i prezzi che tutti sappiamo. (E dirò che mi dispiace molto non potere esser a Roma sabato per prendere parte alla manifestazione che si annuncia grandiosa degli “indignati” italiani).
In definitiva, si stanno manifestando, anche inattesi, imprevisti, talora addirittura insperati, segni di nuovi risorgimenti, di avviate ricostruzioni, di attese rinascite. E poiché sempre nelle Edizioni di Festival Storia, noi tendiamo a “dare un messaggio”, questa volta, spezzando il cerchio magico del pessimismo cosmico-storico che ci contraddistingue, vogliamo fare un vigoroso augurio all’Italia, all’Europa e a tutti i popoli che sono in sommovimento. E riprendendo un motto che ha segnato un momento importante della nostra storia recente, potrei dire, in conclusione, che oggi, in luogo del triplice “Resistere”, proponiamo, questa triade:
RISORGERE RICOSTRUIRE RINASCERE
Grazie. Buon Festival a tutti!
Angelo d’Orsi